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Fruttariani e il fruttarismo

  A cura del Prof. Armando D’Elia

Per una corretta comprensione dell’argomento di questa relazione occorre fare uno sforzo su sé stessi: si devono, cioè, lasciare da parte tutte le teorie e le ipotesi sull’alimentazione dell’uomo preistorico che grosse forze economiche ed una scienza asservita al potere e al profitto hanno cercato di farci accettare a tutela di determinati interessi. Si deve invece cercare di dare risposte soddisfacentemente accettabili agli interrogativi che certamente suscita tale tema, utilizzando il buon senso, la logica elementare e i nostri orientamenti istintivi: sono, questi, tre semplici ma potenti strumenti di indagine di cui tutti disponiamo e che dobbiamo rivalutare ed usare con determinazione.

Occorre partire da un dato di fatto incontestabile: i nostri antichi progenitori non erano carnivori, non erano erbivori, non erano onnivori, erano semplicemente dei fruttariani e lo furono per moltissimi anni, i primi della loro esistenza. Èssi, non ancora bipedi, vivevano sugli alberi della foresta, che dava loro l’unico cibo al quale la specie umana è biologicamente adatta, cioè la frutta succosa e dolce, che ancora oggi istintivamente appetiamo e cerchiamo da piccoli finché conserviamo i nostri sani istinti alimentari. Quindi noi tuttora nasciamo fruttariani, non ci sono dubbi, non ce ne possono essere, da bambini desideriamo e rubiamo la frutta, non la carne, non la verdura, essendo attirati unicamente dal cibo più confacente alla nostra struttura fisiopsichica e quindi nutrizionalmente ottimale, come l’anatomia comparata, la fisiologia comparata ed altre discipline scientifiche comprovano.

Indubbiamente, per ogni specie animale esiste un cibo adatto, più di qualsiasi altro, a quella specie e la frutta succosa e dolce è, appunto il cibo più adatto naturalmente alla specie umana.

Scientificamente questo è spiegabile facilmente dato che esiste una stretta relazione, profonda ed atavica, tra un certo tipo di alimento e la struttura anatomo-funzionale dell’animale che di esso si nutre; tale relazione costituisce garanzia di conservazione e di salute per quell’organismo, il quale, pertanto, è, ovviamente, attratto “istintivamente” da quello specifico alimento. Quell’organismo è, in conclusione, predisposto, per legge naturale, in modo ottimale, alla ingestione e alla digestione di quell’alimento soprattutto e più di ogni altro alimento.

La terminologia è importante; deve essere quanto più possibile esatta, per evitare confusioni, errori di valutazione, interpretazioni fuorvianti, conclusioni sbagliate.

Detto questo, ecco che sorge qui la necessità di fare chiarezza sulla differenza tra “fruttivoro” e “fruttariano” e tra “fruttivorismo” e “fruttarismo”.

Parliamone, quindi.

Il termine “fruttivorismo” indica un generico “mangiar frutta”; pertanto “fruttivoro” è “chi mangia frutta”. Orbene, se pensiamo che esistono popoli che non conoscono l’uso alimentare della carne e dell’olio, o del pane, o del latte non umano, ma che (significativamente!) non esiste alcun popolo che ignori la frutta come alimento, allora TUTTI gli abitanti della Terra si potrebbero qualificare “fruttivori”, anche se assieme alla frutta mangiano altro? CERTAMENTE.

Ma quei fruttivori che sono finalmente riusciti ad individuare nella frutta il proprio UNICO e duraturo alimento, ripristinando felicemente l’alimentazione naturale dei nostri antenati, sono dei fruttivori particolari che occorre distinguere dagli altri fruttivori chiamandoli “fruttariani” e chiamando “fruttarismo” il modello alimentare da loro raggiunto. Non sarebbe errato quindi dire che i fruttariani sono dei “fruttivori fruttariani”.

In conclusione, tutti i fruttivori e quindi indistintamente tutti gli uomini della Terra sono potenzialmente dei futuri fruttariani in quanto tutti inevitabilmente, più o meno tardi e più o meno velocemente, approderanno (questo è il vero progresso!) al fruttarismo, ambita meta di tutta l’umanità, impegnata ormai nel lungo viaggio di ritomo alla alimentazione naturale, che ha intrapreso molti millenni fa.

E’, questo, un viaggio lunghissimo, ma che verrebbe enormemente accelerato se da bambini fossimo lasciati liberi di crescere nutrendoci solo con la frutta, unico alimento che l’istinto ci suggerisce e che ambiamo mangiare e non fossimo invece soggetti alle pressioni deviatrici dei genitori, di coetanei già viziati, di pediatri che, ignoranti o venduti all’industria, influenzano purtroppo le cure parentali. Ancora qualche nota di terminologia per affermare che si può validamente usare il termine “frugivoro” quale sinonimo di “fruttariano”, come autorevolmente confermano il glottologo Pianegiani nel suo “Dizionario etimologico della lingua italiana” ed il linguista Webster nel suo “New International Dictionary”. Va ricordato anche che la radice etimologica di FRUCTUS è la medesima di “frugale” e quindi di “frugalità”, per indicare un modello di alimentazione sobrio e limitato a modeste quantità di prodotti della terra, il che toma a lode del vegetarismo e, naturalmente, del fruttarismo. C’è chi, facendo leva sul fatto che FRUGES (latino) significa “frutti”, ma significa anche “biade”, sostiene, più o meno artatamente, che il termine “frugivoro”, se si privilegia tale secondo significato e se ci si riferisce all’uomo, giustifica il ricorso alimentare ai cereali da parte dell’uomo stesso.

Una simile tesi è però scientificamente insostenibile per molti motivi e soprattutto per i seguenti, da tenere sempre presenti:

  1. I cereali danno dei frutti secchi (cariossidi) che, se interi, sono inadatti ad alimentare l’uomo mentre sono adatti, per esempio, a nutrire uccelli granivori, che sono fomiti di un apparato digerente appositamente strutturato per la digestione di questi frutti/semi delle graminacee (famiglia alla quale appartengono i cereali) e ben diverso da quello umano. L’uomo soltanto ricorrendo ad artifici riesce ad utilizzare i cereali: con la MOLITURA e poi con la COTTURA, ricavando alla fine dei prodotti morti, privati, fra l’altro, del corredo vitaminico.
  2. All’uomo si addicono solo i frutti crudi (cioè “vivi”), carnosi e dolci, che costituirono – si ripete – la sua unica fonte di alimentazione nella preistoria e che contengono più o meno la stessa percentuale media di acqua presente nel corpo umano (65%).
  3. La digestione degli amidi dei cereali è particolarmente onerosa in quando a dispendio energetico e alla fine approderà alla formazione terminale di monosaccaridi (cioè zuccheri semplici, come, per esempio, il glucosio) che troviamo già presenti, pronti ad essere assorbiti senza fatica, nella frutta carnosa e dolce.

Se, invece, si fa riferimento non all’uomo come fruitore di cereali, ma ad altri animali, l’affermazione secondo la quale è corretto l’utilizzo alimentare dei cereali è scientificamente valida. Del resto si è già visto dianzi che per gli uccelli granivori le cariossidi (integre) dei cereali costituiscono cibo adeguato. Lo precisa attenzione! – lo stesso glottologo Pianegiani (prima citato) il quale ci dice che FRUGES con il significato di “biade” si addice “propriamente alle bestie”, intendendo evidentemente per “bestie” gli animali non umani e particolarmente gli erbivori, i quali infatti usano le biade come foraggio e per i quali quindi è giusto dire (come, sempre il Pianegiani dice) che “si pascono” di biade.

Poiché questo paragrafo fa parte di un lavoro imperniato sulle proteine nell’alimentazione umana, uno dei punti qualificanti è senza dubbio quello che riguarda le proteine della frutta, che costituirono per millenni l’unico cibo dell’uomo preistorico. L’uomo, però, ad un certo momento del suo passato preistorico divenne carnivoro e la carne, si sa, è un alimento eminentemente proteico, che continua ad essere presente nella comune dieta di gran parte dell’umanità.

Quale abisso tra l’uomo preistorico fruttariano testé descritto e l’attuale uomo carnivoro! Perché l’uomo divenne carnivoro! Cerchiamo di rispondere a questo inquietante interrogativo nel seguente paragrafo.

2. L’UOMO FRUTTARIANO DIVIENE CARNIVORO.

Dalle proteine della frutta alle proteine della carne.

Ovviamente, nel lunghissimo periodo durante il quale l’uomo si nutrì solo di frutta nella sua patria d’origine, la foresta intertropicale fruttifera, il suo fabbisogno proteico non potè essere coperto altro che dal contenuto proteico della frutta, sull’entità del quale tratteremo in un apposito sottocapitolo.

Cerchiamo invece di capire i motivi dell’avvento del camivorismo nella vita dell’uomo, fatto che ha tutte le caratteristiche di una tragica involuzione, dalla quale prese l’avvio la degenerazione fisiopsichica dell’uomo attuale; anche le modalità con le quali questo evento ebbe a realizzarsi sono degne di attenzione. Ecco perché è necessario parlarne prima di riprendere il discorso sulle proteine.

Durante la preistoria dell’uomo si verificarono eventi meteorologici e geologici che alterarono profondamente l’ambiente. In particolare vennero alterati i biomi vegetali dai quali l’uomo traeva il proprio nutrimento. Avvennero:

  • glaciazioni (espansioni dei ghiacciai),
  • interglaciazioni (ritiri dei ghiacciai e avvento di climi più caldi),
  • periodi di forte inaridimento climatico (siccità),
  • periodi di aumenti eccezionali di piovosità (pluviali).

Per l’uomo fu particolarmente importante l’ultima glaciazione, denominata WÙRM, per la precisione WÙRM III, dell’era quaternaria (pleistocene). Tale immane glaciazione comportò l’avanzata dei ghiacciai su gran parte delle regioni euroasiatiche, con conseguente distruzione delle foreste e con effetti che si protrassero sino a 10.000 anni fa circa. Ma coeve di tale glaciazione furono le intensissime precipitazioni (pluviali) che si verificarono in Africa; ed anche questi eventi climatici furono gravidi di conseguenze per l’uomo. A tali pluviali fecero seguito delle fasi di calo drastico delle piogge e di conseguente inaridimento del clima. A tutto questo bisogna aggiungere gli effetti della formazione della Great Rift Valley, lungo la quale l’Africa si è come spaccata a causa di un grandioso effetto tettonico, tuttora in corso.

L’insieme di tali eventi provocarono notevolissime riduzioni delle foreste che si trasformarono prevalentemente in savane.

L’uomo fu così costretto a comportarsi come un animale da savana, per sopravvivere, fu costretto a cibarsi di quello che in tale ambiente trovava. Vi trovò le graminacee, piante che richiedono spazi aperti, luce solare diretta, condizioni offerte dalla savana e non dall’ombrosa foresta donde l’uomo proveniva. Ci dice il prof. Marcelle Cornei, illustre studioso, dal quale tanto abbiamo appreso, nel suo “Quaderno della salute”: “L’uomo, per derivazione ancestrale, è una scimmia d’ombra: visse per milioni di anni sugli alberi, nell’ombra delle fronde; sceso a terra, poi, vagò per altri milioni di anni nella savana”.

Ora, le graminacee (ne abbiamo già parlato) producono frutti secchi, inodori e insapori;

sono, insomma, come dicemmo, cibo per uccelli. Con artifizi l’uomo riuscì, con l’aiuto del fuoco, ad utilizzare queste cariossidi. Ma l’evento più rivoluzionario che occorse all’uomo, comportandosi come un animale da savana, fu il ricorso, a scopo alimentare, alla carne degli erbivori abitatori della savana, divenendo così, per necessità, un mangiatore di carne, sempre però con l’aiuto del fuoco, non potendo mangiare crudi ne le cariossidi dei cereali ne le carni. Senza l’artifizio della cottura e (per i cereali) della molitura, l’uomo non avrebbe potuto diventare ne un mangiatore di carne, ne cerealivoro, giacché le sue caratteristiche anatomiche naturali (dentatura, ecc.) da sole, non lo avrebbero consentito.

L’impatto con le innaturali deviazioni alimentari (cereali e proteine di cadaveri di animali, peraltro cotti, cioè morti) ebbe, per l’uomo, conseguenze catastrofiche in termini di salute e di durata della vita: il che è comprensibile, dato quello che io chiamo “salto a strapiombo” tra un alimento vivo e vitalizzante come la frutta da una parte e gli alimenti amidacei e carnei, cadaverici e mortiferi, iperproteici come la carne, uccisi e quindi devitalizzati con la cottura, dall’altra.

Reay Tannahill nella sua “Storia del cibo” ci dice che addirittura “durante il periodo dei Neanderthaliani meno della metà della popolazione sopravviveva oltre i 20 anni e 9 su 10 degli adulti restanti morivano prima dei 40 anni”.

Fu soprattutto l’avvento del cibo carneo, con il suo contenuto eccessivo di proteine e con la conseguente tossiemia a produrre tali disastrosi effetti sul corpo, ma anche sulla mente degli uomini; non bisogna infatti dimenticare che la carne crea aggressività.

S’è detto prima che anche le modalità con le quali questi eventi così negativi si produssero “sono degne di attenzione”. Accenniamone, quindi riferendo, in succinto, quanto a questo riguardo dice James Collier, autorevole antropologo: “In conseguenza dei disastrasi effetti di tali eventi sconvolgenti sul clima e sulla vegetazione, l’uomo non potette più affidarsi ai vegetali per nutrirsi e dovette ricorrere alla carne.”

Ma l’uomo è inerme, quindi non è per natura carnivoro, essendo sfornito anatomicamente dei dispositivi atti ad inseguire, uccidere e masticare, crude, le carni degli erbivori. Si pensa pertanto che l’uomo primitivo non sia stato, all’inizio, tanto un cacciatore quanto uno spazzino, che si nutriva delle prede fatte da altri animali veramente carnivori, mancandogli anche la insensibilità necessaria per aggredire ed uccidere con le proprie mani degli animali pacifici e innocenti, oltre che inermi. Forse, adoperando sassi e bastoni, l’uomo riusciva ad allontanare il leopardo dall’antilope uccisa, se ne impossessava e la trascinava al sicuro nel suo rifugio. Tale comportamento è stato chiamato anche “sciacallaggio”.

Ma l’uomo non si limitò a sottrarre agli animali carnivori parte delle loro prede, ma fu costretto anche, quando non trovava da esercitare tale funzione di sciacallaggio, a cacciare direttamente, forzando la sua naturale non-aggressività, spintovi sempre dalla necessità di trovare i mezzi per sopravvivere. Il prof. Facchini (docente di antropologia all’Università di Bologna) si dice certo che l’uomo preistorico adoperò il fuoco a scopo culinario soprattutto per cuocere la carne. Concorda su tale affermazione anche il prof. Qakiaye Perlès, dell’Università di Parigi.

Ma oggi per fortuna non esistono più le ragioni di forza maggiore che obbligarono i nostri antenati ad alimentarsi con cadaveri di animali per assicurarsi il fabbisogno proteico; pertanto da molto tempo l’uomo ha inserito in misura crescente frutta, verdura e ortaggi crudi nella propria dieta. Occorre però vigilare sempre, per difenderci dall’autentico agguato che le industrie alimentari ci tendono continuamente proponendoci, ricorrendo alla propaganda a mezzo dei mass-media e all’opera nefasta di medici prezzolati, sostanze di dubbia convenienza o addirittura nocive.

3. LE PROTEINE DELLA FRUTTA

II tema di questo paragrafo riveste una particolare importanza nella problematica delle proteine. La sua trattazione è necessariamente complessa in quanto deve attingere a molteplici informazioni provenienti da fonti non solo assai disparate ma che possono sembrare a prima vista lontane dall’argomento trattato anche se poi si rivelano utili e convergenti in un medesimo intento.

Questo motiva il ricorso alla seguente esposizione “a stelloncini”, che in casi consimili è risultata essere la più conveniente per l’intelligibilità del testo.

Si è cercato tuttavia di dare, al succedersi degli stelloncini, nei limiti del possibile, un ordine logico conseguenziale.

Quando si parla di proteine qualificandole come uno dei cosiddetti principi alimentari, occorre sempre tener presente che tutti codesti principi partecipano assieme, alla sintesi della materia cellulare: deve prevalere, cioè una visione olistica, globale, “sinfonica”, in quanto tutti i nutrienti sono interdipendenti e tutti sono egualmente indispensabili. Si può essere certi che, viceversa una visione settoriale da luogo a valutazioni errate.

Del resto, tale interdipendenza è comprovata dal fatto che le proteine sono mal digerite in assenza di vitamine e che il loro metabolismo dipende da quello dei glucidi e dei lipidi, almeno in parte. Questo ci fa pensare subito al nostro cibo naturale, la frutta, dove, appunto, la coesistenza ed interdipendenza dei diversi principi alimentari da luogo ad un complesso (fitocomplesso) armonioso che rappresenta, nel contempo, l’optimum anche dal punto di vista nutrizionale.

Abbiamo prima affermato che l’uomo della foresta, dove aveva vissuto per milioni di anni, dovette passare nella savana. Ora, nella foresta era fruttariano, mentre nella savana, difettando la frutta, dovette divenire carnivoro; forse l’organismo umano, adattandosi alla alimentazione carnea, assunse le caratteristiche anatomiche e fisiologiche tipiche dei carnivori? NO, conservò le caratteristiche del fruttariano. Oggi, infatti, dopo milioni di anni di innaturale alimentazione carnea, le nostre unghie non si sono trasformate in artigli, il nostro intestino non si è accorciato, i nostri canini non si sono allungati trasformandosi in zanne, il nostro succo gastrico non ha aumentato la sua originale e debole acidità tipica dei fruttariani, il fegato non ha esaltato la sua capacità antitossica, ne è scomparsa l’istintiva attrazione esercitata sull’uomo in età infantile dalla frutta e neppure è scomparsa la altrettanto istintiva repulsione esercitata dalla carne sul bambino appena svezzato. Tutti segni, questi, che le proteine eccessive che, assieme ad altre caratteristiche negative, sono presenti nella carne, pur provocando danni enormi, non sono riuscite a modificare la struttura fisiopsichica dell’uomo: ciò dimostra che l’alimentazione carnea è così estranea agli interessi nutrizionali e biologici dell’uomo che questi non riesce ad adattarvisi, pur subendo le pesanti conseguenze di un innaturale carnivorismo per lunghissimo tempo.

I 22 aminoacidi (21 secondo alcuni, 23 secondo altri) esistenti negli alimenti si dividono, secondo la nutrizionistica ufficiale, in due categorie: quella dei 14 aminoacidi che possono essere prodotti (sintetizzati) dall’organismo umano e quella degli aminoacidi chiamati “essenziali” (8 o 10) che invece si ritiene non possano essere sintetizzati dall’organismo umano e pertanto dovrebbero essere assunti con gli alimenti. Lo scrivente si è più volte dichiarato contrario a tale teoria, dimostrando che gli “aminoacidi essenziali” sono un autentico “mito”. Tuttavia, ammettendone pure la reale esistenza come la medicina ufficiale pretende, è legittimo formulare questa domanda, di fondamentale importanza: da dove trassero, i nostri progenitori arboricoli, gli aminoacidi oggi chiamati essenziali, ritenuti indispensabili alla vita, durante i milioni di anni in cui furono abitatori della foresta e sicuramente solo fruttariani?

La risposta ad una simile domanda, non può essere che una sola, dettata dalla logica elementare e dal buon senso: evidentemente solo dalla frutta, anche se, secondo il parere di alcuni paleoantropologi, venivano probabilmente aggiunte alla frutta altre parti succulente di vegetali. E poiché noi oggi continuiamo a possedere quelle stesse caratteristiche anatomiche, fisiologiche ed istintuali di quei nostri progenitori, dobbiamo dedurre che le proteine della frutta sono qualitativamente e quantitativamente sufficienti a garantire in modo ottimale la vita dell’uomo anche oggi.

Partendo da queste e da altre considerazioni il prof. Alan Walker, antropologo della John Hopkins University, è giunto alla conclusione che la frutta non è soltanto il nostro cibo più importante, ma è l’unico al quale la specie umana è biologicamente adatta. Per comprovare tale affermazione, Walker ha studiato lungamente le stilature ed i segni lasciati, nei reperti fossili, sui denti, dato che ogni tipo di cibo lascia sui denti segni particolari; scoprì, così, che “ogni dente esaminato, appartenente agli ominidi che vissero nell’arco di tempo che va da 12 milioni di anni fa, sino alla comparsa dell’Homo erectus, presenta le striature tipiche dei mangiatori di frutta, senza eccezione alcuna”.

Istintivamente, quindi, i nostri progenitori mangiavano quello che la natura offriva loro, cioè la frutta matura, colorita, profumata, carnosa, dolce. Ed è facile immaginare che i nostri progenitori mangiassero la frutta spensieratamente, nulla sapendo (beati loro!) sulla quantità e sulla qualità di proteine contenute nella frutta, guidati unicamente dall’istinto… e se la passavano bene.

E’ chiaro che la frutta è il miglior cibo, del tutto naturale, per l’uomo e per l’intera sua vita, a cominciare dal momento in cui è in grado di masticare. Il fruttarismo dell’uomo è innato, perché sbocciato dall’istinto, che ripetiamolo – è l’espressione genuina, perfetta, indiscutibile dei bisogni fisiologici nutrizionali delle nostre cellule; esso si manifesta anche prima della fine della lattazione, reso evidente dalla appetibilità e anche dalla avidità con le quali il bambino ancora lattante assume succhi di frutta fresca, che possono sostituire in certi casi anche il latte materno (succo d’uva, per esempio, come suggeriva Giuseppe Tallarico, medico illuminato, nella sua opera maggiore “La vita degli alimenti”).

Abbiamo prima, accennato alla masticazione. Per masticare occorrono i denti ed i denti cominciano a nascere verso la fine della lattazione, cioè del peripdo in cui l’accrescimento del cucciolo umano è affidato alla suzione della secrezione lattea delle ghiandole mammarie della madre. Domanda: perché al termine della lattazione (e anche prima) l’istinto ci orienta decisamente verso la frutta? La risposta è semplice: esiste una strettissima correlazione

tra il latte, che è il primo nostro cibo, necessariamente liquido, e la frutta, cibo che succederà al latte e che ci accompagnerà, nutrendoci, per il resto della nostra vita.

Esiste, quindi, iscritta biologicamente nell’atto di nascita della nostra struttura anatomica e della nostra fisiologia, una “continuità nutrizionale tra il latte materno e la frutta”, per cui possiamo a giusto titolo considerare questi due alimenti i prototipi alimentari ancestrali dell’uomo.

Per dimostrare quanto conclusivamente è stato detto nel precedente ‘stelloncino’ sulla continuità nutrizionale tra il latte materno e la frutta, bisogna tenere presente quello che ripetutamente abbiamo già affermato e cioè:

1. All’uomo non si addicono cibi ad alto contenuto proteico, che risulterebbero dannosi alla sua salute;

2. l’uomo ha un fabbisogno singolarmente modesto di proteine, come è facilmente dimostrabile esaminando il latte materno.

Partiamo dall’argomento “latte materno”, che funzionerà da battistrada nella dimostrazione della sua continuità nutrizionale con la frutta. E’ noto che entro il 6° mese di vita extrauterina l’uomo giunge a raddoppiare il proprio peso e a triplicarlo entro il 12°, alimentandosi unicamente con il latte materno. Tutti i testi di chimica bromatologica e di fisiologia umana ci informano che il latte materno contiene 1’1,2% di proteine. Ebbene, non è proprio così, in quanto, sino a 5 giorni dopo la nascita del figlio, il latte umano contiene il 2% di proteine e questa percentuale, a partire dal 6° giorno, comincia a calare progressivamente e lentamente sino a raggiungere, dopo 3-4 settimane, 1’1,3% e, dopo 7-8 settimane, 1′ 1,2%, percentuale che verrà poi mantenuta più o meno costante sino alla fine dell’allattamento.

Si constata, in sostanza, un evidente e regolare decremento del contenuto proteico del nostro unico “primo alimento” a misura che il neonato si avvia, con la comparsa progressiva dei denti, ad acquisire capacità masticatorie. Raggiunta tale capacità, ha termine quel periodo, dalla nascita allo svezzamento, che costituisce indubbiamente la fase anabolica più impegnativa, più intensa e più difficile dell’intera vita umana e che superiamo, come si è visto, con un cibo (il latte materno) contenente le modeste percentuali di proteine prima indicate.

Poiché la velocità di accrescimento è massima nei primissimi giorni di vita e poi via via decresce, è logico anche che la percentuale delle proteine contenute nel latte, e che costituiscono il necessario materiale di costruzione, debba seguire lo stesso andamento.

L’accrescimento ponderale dell’individuo continua, come si sa, anche dopo la comparsa dei denti, per terminare tra i 21 e 24 anni, ma con una velocità estremamente ridotta rispetto a quella del lattante.

E’ pertanto del tutto ovvio che l’alimento che subentrerà al latte materno dovrà avere una percentuale di proteine corrispondente ai reali bisogni di proteine dell’individuo non più lattante, in linea con la decrescenza, prima comprovata, di tali bisogni proteici. Riassumendo, “il fabbisogno proteico dell’uomo è massimo nel lattante, medio nell’adolescente, minimo nell’adulto”: questo ci dice il grande igienistaAttilio Romano nel suo aureo lavoro “Pregiudizi ed errori in tema di alimentazione “; su questo insiste anche il prof. Alessandro Clerici nel suo Lavoro “Come si deve mangiare”. Occorre osservare:

  1. Senza alcun dubbio spetta al medico tedesco Lahmann il merito di avere, da pioniere illuminato, gettato, nel campo della dietetica umana, le basi scientifiche del fruttarismo, avendo scoperto e dimostrato che esso costituisce la innata prosecuzione naturale dell’alimentazione lattea.
  2. Ancora prima del Lahmann, un altro “grande”, Max Rubner, docente di cllnica medica all’Università di Berlino, aveva richiamato l’attenzione degli studiosi suoi contemporanei (e il Lahmann colse l’importanza di tale appello) sul fatto che “la scarsezza di proteine nel latte materno è un segno distintivo della specie umana che sconfessava i paladini dei regimi ricchi di proteine”.

Questa è la regola che vige in natura: destinare ai diversi esseri viventi cibi che contengano i principi alimentari indispensabili, ma solo nella quantità necessaria, che deve essere considerata l’optimum per l’individuo. Tanto è vero che non possiamo nutrire un neonato umano, il cui latte contiene 1′ 1,2% di proteine, con il latte per es. di mucca, che contiene il 3,5% di proteine senza determinati accorgimenti come la elementare diluizione, nel tentativo di evitare enteriti e altri malanni, anche gravi.

Il corpo umano, quindi, osserva proprio questa regola, cioè la cosiddetta “legge del minimo”, che a nostro parere potrebbe anche (e forse “meglio”) chiamarsi “legge dell’optimum” in quanto, se l’individuo ingerisce cibi contenenti dei nutrienti in quantità eccedenti il proprio fabbisogno, tale eccesso diviene per l’organismo una vera e propria scoria tossica ed il corpo cerca in tutte le maniere di sbarazzarsene, cosa che avviene in speciale modo per le proteine, come in precedenza s’è già detto.

Poiché la velocità di accrescimento dell’individuo non più lattante è decisamente inferiore a quella che aveva durante l’allattamento, è naturale ed ovvio che il contenuto proteico del primo cibo solido che l’uomo assume dopo lo svezzamento debba essere inferiore a quello del latte materno e da considerarsi l’optimum secondo la “legge del minimo”. Ciò, in armonia con il reale diminuito bisogno di proteine.

Ebbene, tale cibo non può essere che la frutta, che ha, appunto, in media, un contenuto proteico adeguato ai bisogni nutrizionali normali della fase successiva allo svezzamento:

cioè, mediamente inferiore a quella riscontrata nel latte materno che nel periodo terminale dell’allattamento si aggira attorno all’l,2%, come si disse.

A questo riguardo è interessante l’opinione del dottor Lovewisdom, uno dei più profondi studiosi dell’alimentazione naturale dell’uomo. Egli ci dice nel suo libro “L’adulto umano non ha bisogno di alimenti che contengono più dell’l % di proteine” “L’homme, le singe et le Paradis”. Del resto, una volta completato l’accrescimento, il nostro fabbisogno di proteine serve solo alla sostituzione delle cellule perdute per usura, cioè al semplice mantenimento dell’equilibrio metabolico e a tale scopo la frutta acquosa è più che sufficiente.

Orbene, tutti i vegetali, anche i più negletti e poco noti, contengono proteine, nessuno escluso: questo è un punto fermo, che occorre tenere sempre presente.

Diversi studiosi di vegetarismo sostengono essere sempre necessario integrare la frutta con altre parti tenere e succose di vegetali, sempre crude e fresche, sia pure in pasti separati, cioè con: radici (carota, rapa, sedano-rapa, barbabietola rossa), ricettacoli floreali e base delle brattee (carciofo), foglie, gambi e germogli (lattuga, cicoria, sedano, spinacio, cavoli di vario tipo), turioni (asparago, finocchio), infiorescenze e gambi (cavolfiore, broccoli di vario tipo), bulbi (cipolla), ecc. (tutti questi vegetali sono comunemente chiamati “ortaggi” in italiano, “légumes” in francese).

Elenchiamo ora i più comuni frutti carnosi con i relativi contenuti proteici, in percentuale:

  • albicocca…………………………………………. 0,8
  • anguria……………………………………………. 0,9
  • arancia………………………………………. 0,9-1,3
  • avocado………………………………………….. 2,6
  • banana……………………………………………. 1,4
  • cetriolo………………………….. ……………… 0,9
  • ciliegia …………………………………………… 1,2
  • dattero …………………………………………… 2,2
  • fico ……………………………………………….. 1,5
  • fico d’India………………………………………. 0,8
  • fragola………………………………………….. 0,95
  • kaki …………………………………………………..1
  • lampone …………………………………………. 1,4
  • limone ……………………………………………..0,9
  • mandarino………………………………………….. 1
  • mela …………………………………………….. 0,35
  • melone …………………………………………… 1,3
  • mora………………………………………………… 1
  • nespola…………………………………………. 0,45
  • peperone ………………………………………… 1,2
  • pera …………………………………………………0,6
  • pesca ……………………………………………… 0,7
  • pomodoro………………………………………… 1
  • prugna……………………………………………. 0,8
  • uva …………………………………………….. 1-1,4
  • zucchina…………………………………………. 1,5

media: 28,75/26 =1,1%

Ed ecco le percentuali di proteine presenti negli ortaggi più comuni, limitatamente a quelli che si possono utilizzare crudi:

  • asparago………………………………………….. 1,8
  • barbabietola……………………………………… 1,2
  • barbabietola rossa………………………………. 1,6
  • carciofo……………………………………………. 2,4
  • cavolfiore…………………………………………. 2,6
  • carota……………………………………………… 1,2
  • cicoria……………………………………………… 1,6
  • cipolla……………………………………………… 1,4
  • cavolo verza……………………………………… 3,3
  • cavolo rosso………………………………………. 1,9
  • finocchio…………………………………………… 1,9
  • lattuga e simili…………………………………… 1,3
  • pastinaca………………………………………….. 1,7
  • porro………………………………………………….. 2
  • ravanello ……………………………………………. 1
  • sedano (foglie/gambi)…………………………… 1,3
  • sedano-rapa………………………………………. 1,5
  • spinacio……………………………………………. 2,2

media: 31,9/18 = 1,78%

Sarebbe, a questo punto, errato fare conclusivamente la media aritmetica tra il contenuto proteico medio della frutta e quello degli ortaggi per ricavare direttive alimentari pratiche. Tale calcolo darebbe 1,44 [(1,1 + 1,78)/2] e sarebbe valido se la nostra alimentazione fosse costituita per il 50% da frutta e per il 50% da ortaggi. Occorre invece dare netta preponderanza alla frutta, che è il principe dei nostri alimenti perché fu il cibo primigenio dell’uomo, quello con il quale il corpo umano si è forgiato. Dando invece in giusta misura la prevalenza alla frutta, in media la carica proteica dei cibi che dovrebbero essere utilizzati dall’uomo si attesta su 1,3% circa. Tale percentuale è largamente sufficiente, anzi superiore (sempre in media, che è quel che conta) al fabbisogno dell’uomo, specie dopo il completamento dello sviluppo, cioè dopo il 24° anno di età. Del resto, ciò è comprovato dal fatto che i fruttariani non soffrono di alcuna carenza e non hanno problemi di salute. Naturalmente i risultati dei calcoli sopra riportati non sono da prendere, “alla virgola” o al centesimo, ma vogliono avere, ed hanno, un valore orientativo generale e soprattutto vogliono offrire, ed offrono, una prova della continuità nutrizionale tra il latte materno e la frutta. A proposito dell’ottimale validità nutrizionale del fruttarismo potremmo dilungarci a riportare autorevoli opinioni, altri fatti, altre argomentazioni scientifiche per dimostrare tale validità, che garantisce all’uomo fruttariano il godimento di una piena salute fìsio-psichica: ma su tutto l’abbondante apporto probatorio che così raccoglieremmo dominerebbe la prova-base, la più incontestabile, già da noi prima evocata, ma che tuttavia torniamo ad evocare: nella foresta, patria originaria dell’uomo, questi visse in perfetta salute, sugli alberi fruttiferi, per milioni di anni, alimentandosi di frutta e – sostengono ipoteticamente alcuni studiosi, come Lovewisdom – anche di altre parti tenere di vegetali.

Molto probabilmente il lettore si chiederà che bisogno c’è di dimostrare che la carica proteica del latte materno è la stessa (o presso a poco) non solo di quella della frutta, ma anche quella dei cosiddetti ortaggi. Non s’è detto che l’uomo preistorico viveva sugli alberi fruttiferi nutrendosi solo di frutta? Insomma, la sola  frutta è sufficiente o no ad alimentare l’uomo? Cerchiamo di rispondere qui di seguito a tali interrogativi.

Si è già accennato in precedenza che secondo  alcuni studiosi la frutta andrebbe integrata con altre parti tenere e succose di vegetali; condividiamo tale opinione, ma poiché condividiamo anche la tesi di Cornei, Tallarico, Carqué, ecc., che cioè i nostri più antichi progenitori arboricoli si nutrivano “solo” di frutta, siamo tenuti a spiegare questa nostra apparente contraddizione.

Anzitutto, la frutta che i primi uomini mangiavano da arboricoli nella foresta intertropicale era, in quanto a capacità nutrizionale, enormemente superiore a quella di oggi esistente. La frutta d’oggi è infatti il risultato di migliala di anni di frutticoltura che, dovendo commerciare con i prodotti della terra, lo fa utilizzando dei criteri di produzione della frutta basati su:

  • rendimento della pianta
  • colore
  • taglia
  • gusto
  • struttura
  • conservabilità
  • facilità di raccolta
  • sicurezza e continuo incremento del profitto.

Insomma la produzione odierna di frutta è profondamente artificiosa, mentre la frutta che nutriva l’uomo preistorico era il prodotto del libero giuoco delle forze vitali dell’aria, del suolo, delle arcane forze della natura, era figlia della luce, scrigno di energia solare, viva e vitalizzante, non cresciuta sotto lo stimolo anormale dei concimi chimici, dei diserbanti, degli anticrittogamici, i cui residui rendono oggi talora la frutta financo pericolosa per la nostra salute. C’è un abisso, dunque, tra la frutta che nutrì i primi uomini e la frutta d’oggi. L’uomo odierno a dire il vero comincia a rendersi conto che la frutta nutre poco e male e ha perduto i sapori della frutta “antica” di cui si sente la mancanza. Ed ecco sorgere, allora, iniziative tipo “archeologia dell’albero da frutta”, “banche del seme”, e soprattutto coltivazioni biologiche. Un esempio: la pera cosiddetta “spina” è la “pera antica”, bitorzoluta, contorta, decisamente brutta se guardala con l’occhio dell’esteta tradizionalista per il quale la pera, quella addomesticata, deve avere la forma classica e basta. In Italia di alberi di pere “spina” ne restano ormai pochi, destinati a sparire perché la gente vuole pere “belle” di parvenza e non nodose e brutte:

anche se poi chi le assaggia rimane estasiato per il loro sapore, ormai non più riscontrabile nelle pere “moderne”, frutto di cultivar, incroci, innesti, manipolazioni genetiche, fitonnoni, ecc.. Lo stesso discorso vale per molte varietà di mele in via di scomparsa, come le mele “zitelle”, per esempio.

Deciso scadimento quindi, del valore nutrizionale della frutta moderna nei riguardi della frutta “antica” e quando diciamo “antica” ci riferiamo appena ad un secolo fa o giù di lì; ma a misura che andiamo a ritroso nel tempo la differenza si fa, ovviamente, sempre più marcata, tanto che riesce difficile solo immaginare quale potenza nutrizionale riservasse la frutta che servì alla nutrizione e alla crescita delle primissime generazioni dell’uomo arboricolo e fruttariano.

Abbiamo detto sopra che la gente ha cominciato a capire che la frutta odierna, nonostante che continuiamo ad essere da essa attratti, non solo nutre poco ma nutre anche male. Qui appresso spieghiamo perché.

Per effetto dei trattamenti e delle selezioni che l’uomo, come abbiamo prima accennato, applica in agricoltura e particolarmente in frutticoltura, la frutta prodotta è caratterizzata soprattutto da un eccessivo tenore di zuccheri. Ora, è vero che il nostro organismo funziona proprio grazie allo zucchero, ma è anche vero che lo zucchero, come qualsiasi altro alimento, per essere assimilato, deve trovarsi associato con vitamine, specialmente quelle del gruppo B, minerali, aminoacidi ed altri elementi nutritivi, con i quali costituisce un fitocomplesso equilibrato ed armonico.

L’eccesso di zucchero oggi riscontrabile nella frutta crea invece squilibrio e disarmonia, per cui l’organismo non è in grado di utilizzare tutto lo zucchero presente nella frutta: ecco perché si disse che la frutta d’oggigiorno fa correre il rischio di nutrire “anche male”. Come ovviare a questo squilibrio? Includendo nella nostra dieta una consistente quantità di alimenti non zuccherati, in particolare verdure crude ed ortaggi vari, che forniscono in abbondanza vitamine, minerali ed aminoacidi essenziali, indispensabili per ottenere una nutrizione equilibrata.

L’aggiungere verdure ed ortaggi alla frutta, anche se questa rimarrà quantitativamente preponderante, è, quindi, un “corrrettivo”? Certamente, è un utile correttivo. Naturalmente, sia la frutta che le verdure e gli ortaggi, per conservare la loro efficacia nutrizionale, devono essere consumati crudi ed è anche buona norma utilizzarli in pasti separati. Ma aggiungiamo subito che si tratta di un correttivo “temporaneo” e qui di seguito spieghiamo perché diciamo che è temporaneo.

Abbiamo visto – riassumiamo – che la frutta odierna, rispetto alla frutta che nutrì l’uomo preistorico, difetta di potere nutrizionale (e si cerca nell’attuale processo, in atto, di riavvicinamento alla natura, di coltivarla biologicamente, come rimedio primo), ma eccede, invece, in contenuto di zuccheri (glucosio/fruttosio) (e si cerca di ovviarvi proponendo di accompagnarne il consumo con ortaggi, che potranno, così, partecipare all’approvvigionamento di proteine). Poiché, come è evidente, si tratta di una situazione, quella attuale, “in movimento”, a misura che progredirà l’agricoltura biologica, migliorerà anche la qualità della frutta attuale, i cui lati negativi (eccessi e difetti sopracitati) si attenueranno gradualmente e alla fine scompariranno.

Ovviamente, quando la frutta riacquisterà totalmente le caratteristiche che permisero il pieno affermarsi dell’uomo preistorico arboricolo e fruttariano, cesserà il bisogno o la semplice convenienza di ricorrere agli ortaggi e l’uomo tornerà ad essere fruttariano al 100% e sarà quello un grande giorno, che riteniamo non troppo lontano, dato l’incoraggiante crescente interesse per questo così importante problema.

E’ stato osservato, circa l’aggiunta di verdure e ortaggi alla frutta, che le tre grandi scimmie antropomorfe (Pongidi) orango, scimpanzè e gorilla , ritenute comunemente, sui piani anatomico, fisiologico, ematologico, ecc., i più vicini nostri parenti, mangiano, oltre che frutta, anche foglie, gemme, scorze, rametti, radici, sedano selvatico, bambù ed altre erbe. Soprattutto si sottolinea che questo comportamento alimentare si riscontra nel gorilla, che invece da molti fruttariani veniva portato come esempio di animale fruttariano al 100%, come una sorta di archetipo fruttariano: si ritiene, anzi, da alcuni che la frutta partecipi alla dieta del gorilla in minor misura degli altri vegetali sopra citati. Sono invece tutti concordi nel rilevare, nella dieta dei Pongidi, l’assenza di noci (cioè, precisiamo noi, di semi), particolare che sottolineiamo come importante, per quanto appresso si dirà a proposito dei semi e della loro carica proteica.

Quanto sopra viene citato da alcuni per cercare di avvalorare, su un preteso piano scientifico zoologico/evoluzionistico, la necessità dell’aggiunta di verdure ed ortaggi alla frutta anche da parte dell’uomo, cioè, in pratica, per negare la sufficienza nutrizionale di una dieta fruttariana al 100%.

Senonché coloro che tanto affermano dicono cose scientificamente inesatte e le loro conclusioni sono errate, difettando, tra l’altro, di validi aggiornamenti culturali. Infatti, coloro che “fotocopiando” i comportamenti dei Pongidi (ammesso, ma non concesso che siano quelli che vengono descritti) pretendono di trasferirli all’uomo pari pari, come per un imperativo biologico automatico, sembra che siano rimasti alla famosa e semplicistica (e, potremmo anche dire, infantile) interpretazione di quanto Charles Darwin, nel 1871, scrisse nel suo “The Descent of Man”. Si disse, allora, che Darwin sosteneva che “l’uomo discendeva dalla scimmia”. Come invece ogni persona con un minimo di cultura biologico/naturalistica sa, Darwin non affermava che l’uomo discendeva da una scimmia antropomorfa.

La verità è, invece, che le grandi scimmie antropomorfe e l’uomo sono organismi contemporanei sì, ma che discenderebbero, però, da un primate, antenato comune, esistito milioni di anni fa e attualmente estinto. Da quello si sarebbero poi originate due distinte linee evolutive, una delle quali avrebbe portato alle attuali scimmie antropomorfe, mentre l’altra avrebbe avuto come termine ultimo l’uomo. Inoltre – ci dice Ralph Cinque, D.C., direttore dell’Hygeia Health Retreat diYorktown (Texas), nonostante le sue critiche al fruttarismo umano al 100% – “l’uomo non è una scimmia leggermente migliorata, le differenze con gli esseri umani sono considerevoli ed è un errore fare dei paralleli fra i due” (dalla rivista Vie et Action n. 157).

Gli fa eco T.C. Fry, direttore del periodico Healthfui Living, il quale sostiene che consigliare di mangiare verdure perché contengono elementi nutritivi che non si troverebbero nella frutta è un nonsenso perché non c’è nelle verdure niente che non sia contenuto, in quantità sufficiente, anche nella frutta.

Una obiezione di natura biochimica avversa all’uso delle verdure è questa: mentre gli erbivori sono provvisti dell’enzima “cellulasi” che consente di convertire la cellulosa contenuta nelle foglie in glucosio, l’uomo è sprovvisto di tale enzima e pertanto non ricava alcuna utilità, almeno per quel che riguarda l’approvvigionamento di glucidi, dal mangiare verdure. Tutto quello che, oltre alla cellulosa, si trova nella foglia e che possa avere un qualche valore nutritivo lo si trova anche nella frutta. Poiché il nostro corpo ha bisogno, per produrre energia, di glucosio, le foglie verdi non sono in grado di dargliene per l’assenza di tale enzima. In definitiva, le verdure possono essere considerate naturali per gli erbivori, ma certamente non per i fruttariani, come l’uomo; inoltre non ci procurano alcuna caloria ed è più l’energia che spendiamo per la loro digestione che quella che se ne ricava.

Si dice che nelle verdure c’è la clorofilla, alla quale si attribuiscono virtù particolari nella nutrizione dell’uomo, ma la clorofilla è una proteina come le altre. Le vitamine, i sali minerali, le proteine ed alcuni acidi grassi presenti nelle foglie si ritrovano anche nella frutta, inoltre nella frutta si trova l’acqua “fisiologica” più o meno nella stessa percentuale con la quale è presente nel corpo umano; non così nelle foglie e meno ancora nei semi.

Fry sposta poi la sua attenzione sul fatto che la maggior parte delle foglie, tra cui quelle che noi mangiamo, sono provviste di veleni protettori della pianta. Tra le foglie più tossiche che noi mangiamo sono da annoverare: il sedano, le bietole, il ravizzone (colza), il rabarbaro, il prezzemolo, il basilico, gli spinaci, la cicoria, la menta, il tarassaco, l’origano, ecc.

Particolarmente tossiche e persino mortali sono le foglie del pomodoro, della patata, della melanzana, del peperone, dell’albicocco, ecc. Financo le foglie della lattuga pare che siano, sebbene modestamente, provviste di sostanze tossiche. La presenza di questi veleni protettori nelle foglie e dei conseguenti rischi tossicologici che si corrono nel mangiarle sono autorevolmente confermati dagli studi specifici fatti dal prof. Bruce Ames, dell’Università di Berkeley, USA. Per contro, la maggior parte dei frutti utilizzati dall’uomo a scopo alimentare sono invece privi di sostanze tossiche.

Anche le notizie relative alla presenza di fogliame ed altre parti di vegetali nella normale dieta delle grandi scimmie antropomorfe, della quale prima si è parlato, sono false. La prima osservazione che si può fare è che noi non possiamo essere condizionati dalla loro condizione attuale, più che non esserlo dagli Esquimesi, dice ironicamente Fry.

Si è detto prìma che le grandi scimmie antropomorfe non mangiano semi, comunemente indicati come “noci”. Ora, per quanto riguarda l’uomo, possiamo dire che le noci non solo non sono necessarie, ma addirittura sono dannose, contenendo un fattore antinutrizionale, un antienzima, che ostacola la loro digestione da parte di altri enzimi. E’ chiaro che i semi hanno lo scopo di dare vita a un nuovo essere vivente e non sono certo destinati ad essere distrutti dall’azione trituratrice dei denti dell’uomo prima che dai suoi succhi digestivi. La Natura non ha prodotto i semi per nutriire l’uomo, per altro sono troppo proteici e possono, a causa proprio di tale eccesso di proteine, provocare danni alla salute umana. Infine, contenendo pochissima acqua, sono inadatti anche per questo a costituire un cibo adeguato alle esigenze umane.

Per l’uomo che si trovasse in uno stato di natura, senza apparecchi per cucinare, disponendo solo del suo corpo, senza attrezzi di nessun tipo, la frutta è la sola cosa che prenderebbe, rifiutando erbe, cereali, radici e tuberi; naturalmente rifiuterebbe, essendone incapace di catturare, uccidere e mangiare altri animali oppure di berne il latte.

La frutta, in sostanza, costituisce un alimento naturale, che, comparso quando comparve, l’uomo, fu chiaramente destinata dalla Natura, simbioticamente, a nutrire in modo ottimale l’uomo.

Quando si afferma che la frutta, utilizzata come unico alimento, provoca un sovraccarico di zuccheri, si trascura il fatto che a tale eccesso contribuisce (e non potrebbe essere altrimenti) anche l’alimento amidaceo che ingeriamo (pane, pasta, riso, polenta, ecc.) e che ha, come destino finale della sua digestione, appunto, monosaccaridi (zuccheri semplici); questo eccesso di amidi nella propria dieta è comunemente indicato con il termine “amidonismo”.

Riprendiamo il discorso sulle grandi scimmie antropomorfe per esaminare più approfonditamente la loro dieta. Ebbene, si è potuto accertare che l’orango può restare fino a tré mesi di seguito sugli alberi, senza mai scendere al suolo e nutrendosi pertanto solo della frutta prodotta dagli alberi. I gorilla vengono giustamente definiti da Fry “macchine che vanno a foraggio e macchine per defecare” in quanto la loro giornata è mediamente costituita da 14 ore dedicate a riposare e defecare e 10 ore circa dedicate alla ricerca ed ingestione di cibo. George B. Schaller ha fatto notare che essi mangiavano foraggio in una quantità giornaliera pari al 10% del loro peso, soprattutto sedano selvatico. Ne si capisce come possano elaborare tutti questi vegetali se si tiene presente che i gorilla, come del resto l’uomo (e ne abbiamo parlato) non secernono la cellulasi, che è l’enzima necessario alla trasformazione della cellulosa in uno zucchero semplice. Evidentemente questa grossa massa solo parzialmente digerita di vegetali stimola egregiamente la peristalsi provocando la pressoché continua defecazione. Ma Schaller ha approfondito la cosa ed ha potuto così appurare che, quando arrivava la stagione di certa frutta, i gorilla non toccavano più il foraggio, ma si alimentavano unicamente di quella frutta, fin che ce n’era.

Ed è ancora Schaller, primatologo di grande fama, che ci riferisce di un esperimento fatto allo zoo di San Diego, dove i gorilla, se veniva loro somministrata frutta in abbondanza, non mangiavano più il foraggio; insomma il gorilla, messo in condizioni di scegliere tra foraggio e frutta, non manifesta dubbi e sceglie la frutta. Che cosa significa ciò? Significa che il suo cibo naturale, non è il foraggio, ma la frutta. Certo, anziché patire la fame si mangia qualunque cosa. Così, del resto, fecero i nostri progenitori quando, passando dalla foresta, e dall’alimentazione fruttariana che questo bioma consentiva, nella savana, dove non esistono alberi da frutta, per non soccombere divennero cerealivori e mangiatori di carne, con l’aiuto del fuoco.

E della terza scimmia antropomorfa cosa c’è da dire? Dello scimpanzè si dice che mangia molte cose e forse ciò è vero in condizioni di cattività, situazione innaturale, che determina sconvolgimenti comportamentali notevoli, che possono influire anche sugli orientamenti nutrizionali.

E’ bene, quindi, dare validità alle testimonianze di ricercatori o studiosi che ne hanno osservato attentamente la vita, quando questa viene trascorsa in libertà; per lo scimpanzè nessuna persona può saperne di più di J. Goodall, etologa primatologa che ha trascorso trent’anni tra loro, la quale ha constatato che se gli scimpanzè dispongono di banane in abbondanza, mangiano solo questi frutti e niente altro (sino a 40-50 la volta).

Come si vede, i comportamenti alimentari delle 3 grandi scimmie antropomorfe, che molti ritenevano accreditassero la insufficienza di una alimentazione fruttariana al 100% (e quindi il ricorso obbligato ad altre parti più o meno tenere di vegetali), in realtà, da quanto si è detto in quest’ultima parte del presente stelloncino, documentano proprio il contrario e cioè che queste scimmie, quando sono libere di scegliere il loro nutrimento naturale, si nutrono da animali fruttariani al 100%. E non c’è bisogno di estrapolare questo comprovato fruttarismo dei Pongidi applicandolo all’uomo perché per quest’ultimo fa fede l’istinto dei bambini, quando non è ancora pervertito.

Dicemmo, nel 5° stelloncino di questo paragrafo che all’uomo non si addicono cibi ad alto contenuto proteico, come, per esempio, derivati del latte, semi, uova, legumi, ecc., per non parlare della carne. Peraltro, molte di queste proteine andrebbero sprecate in quanto l’organismo espelle, indigerite, con le feci una buona parte di queste proteine (quelle che non riesce ad espellere in questa maniera, se sono ancora eccessive, cercherà di deaminarle trasformandole in composti ternari, cioè in zuccheri e grassi e poi ancora, se neanche ciò basta, se ne sbarazzerà mediante un lavoro straordinario del fegato e dei reni).

Dobbiamo ora tornare a parlare di questi cibi ad alto contenuto proteico, intanto per ricordare, se ce ne fosse ancora bisogno, che la frutta è da escludere dal novero dei cibi ad altro contenuto proteico e che anche questo fatto contribuisce a renderla atta all’alimentazione umana. Ma se ora torniamo a parlare di questo argomento è per evidenziare un altro fatto di notevole importanza e cioè una scoperta del già citato prof. Max Rubner, dell’Università di Berlino, il quale la rese pubblica a Lipsia, in un Convegno scientifico, con una memoria riguardante i risultati delle sue ricerche sulle proteine (che poi lui espose nel suo libro “Volksemahrungsfragen”, in italiano: “Questioni relative all’alimentazione della popolazione”). Il succo di questa scoperta è che il grado di utilizzazione delle proteine di un determinato alimento è tanto più grande quanto più modesta è la percentuale di proteine che quell’alimento contiene.

Questo studioso dimostrò, per esempio, che un chilo di patate costituisce un cibo relativamente assai più nutriente di un etto di carne o di formaggio perché l’organismo umano riesce ad utilizzare dalle patate una quantità di proteine sette volte maggiore di quelle che utilizzerebbe mangiando carne o formaggio, in quanto le proteine di un etto di carne o di formaggio sono concentrate, mentre la stessa quantità di proteine è nelle patate diffusa in una massa di dieci etti.

La stessa cosa vale per le mele, che sono molto nutrienti in quanto le loro relativamente scarse proteine (0,35%) sono utilizzate al 100%. Come è facile capire, questa scoperta di Rubner costituisce una ennesima e valida motivazione scientifica del fruttarismo.

4. L’ANTICONFORMISMO DELL’UOMO FRUTTARIANO

La marcia di ritomo dell’uomo al suo originario fruttarismo non è un disegno utopico, non è un sogno, è una realtà. Avendo dimostrato nei paragrafi precedenti che la carica proteica della frutta rappresenta l’optimum per l’approvvigionamento azotato dell’uomo e che, per una serie di altri motivi tratti dalle più diverse discipline, il fruttarismo, è l’ambita meta finale, in un certo senso “obbligata”, di tutta l’umanità, abbiamo con ciò contribuito a dare certezza scientifica alla radice della tematica fruttariana.

Orbene, sul piano pratico bisogna fare il possibile per avvicinarci gradualmente, con pazienza e perseveranza, a tale meta: saremo incoraggiati a farlo dalla constatazione che la nostra salute fisica, la nostra efficienza intellettuale migliorano in maniera evidente a misura che si avanza verso il fruttarismo al 100%. Una volta acquisita la consapevolezza di essere sulla strada giusta, razionalizzeremo sempre più la nostra alimentazione, gradino dopo gradino. Nel frattempo giova informarsi sulle esperienze fruttariane di chi è più avanti di noi in modo da prendere coscienza del livello al quale si è giunti nell’opera di bonifica della propria vita. Se tale livello risultasse ancora modesto o anche modestissimo, non ci si deve per questo scoraggiare, ma conviene utilizzare il livello già raggiunto come una pedana di lancio onde potere poi balzare al livello superiore e così via, gradatamente, ma senza fermarsi, senza mai rinunciare a migliorare. Ognuno di noi è, quindi, in marcia per diventare fruttariano al 100%, a pieno titolo:

Allora: pensiamo, leggiamo, ascoltiamo, indaghiamo, sperimentiamo! Avanziamo!

In quanto all’anticonformismo dei fruttariani già tali o in marcia per divenirlo, chiaramente espresso dal titolo di questo paragrafo, dobbiamo anzitutto ricordare che la presente relazione ha, tutta, una carica anticonformista. Del resto, non solo i fruttariani, ma tutti i vegetariani in genere sono anticonformisti. Nessun dubbio che siamo ancora una minoranza, nessun dubbio che siamo contro corrente, contro i principii dietetici e comportamentali seguiti acriticamente e supinamente dalla maggioranza.

Dobbiamo però essere lieti di far parte di questa minoranza, che ci consente di sentirci (certo non in senso elitario) culturalmente avvantaggiati e tuttavia maggiormente impegnati, nei rapporti con gli altri, a praticare la benevolenza, la comprensione e l’umiltà tipiche di coloro che più sanno.

Il conformismo culturale oggi imperante, che noi decisamente rigettiamo, conduce in realtà ad una acritica accettazione delle opinioni dei satrapi della cultura accademica, soprattutto di quella medica. Certamente, tenendo conto di tale andazzo, molti passi di questa relazione appariranno non solo spregiudicati, ma addirittura irriverenti nei riguardi sia di persone o categorie di persone, sia di principii o luoghi comuni, dai quali ci discostiamo più o meno vistosamente. Ma questa nostra eterodossia vuole essere solo una critica costruttiva, anche quando ha le parvenze di essere demolitrice; pensiamo, in sostanza di agire in difesa della libera ricerca della Verità, ritenendo che questo e non altro debba essere il fine di ogni indagine scientifica, quando è condotta con idee chiare ed onestà di intenti.

Del resto, è ben noto che molte altisonanti affermazioni, anche di matrice scientifica, si sono poi palesate solo dei pregiudizi o addirittura dei miti e pertanto sono clamorosamente cadute; e si può star certi che altre sono destinate a cadere nel futuro, a misura che avanza nell’uomo la ragione ed il ricorso liberatorio al semplice buon senso e/o alla logica elementare deduttiva. E’ noto che i pregiudizi ed i miti sono duri a morire e quindi non c’è da meravigliarsi se anche quelli relativi alle proteine siano ancora così diffusi.

Il fatto che alcune di queste false credenze durino molto non significa affatto che esse abbiano sicuramente un fondamento reale. Un esempio illuminante è quello che qui di seguito citiamo.

Nel lontano 1914 un grande scienziato, Robert Banary, vinse il premio Nobel per la fisiologia e la medicina per merito di una sua teoria “sul funzionamento dell’orecchio interno e sui dispositivi che influenzano l’equilibrio del corpo umano”. Tutto il mondo scientifico dell’epoca, fece propria tale teoria e tutti i testi scolastici, dai licei alle Università, data l’autorità del Barany, la riportarono qualificandola come una conoscenza scientifica ormai definitivamente acquisita e indiscutibile. Senonché… senonché, nel 1983, dopo circa 70 anni di supino conformismo scientifico, si scoprì, durante il volo di prova dello Space Shuttle, che quella teoria era totalmente infondata e immediatamente tutti tacquero, di colpo, e da allora nessuno ne ha più parlato. Ebbene, quando tale teoria fu formulata, nessuno si era preso la briga di indagare sulla sua serietà e fondattezza; tanto può (eccone un esempio) la accettazione acritica dell’autoritarismo culturale!

Talvolta però, può accadere che qualche “scoperta” o “invenzione” viene sottoposta a verifica e crolla miseramente. Riportiamo ora un altro caso, più recente di quello prima accennato.

Qualche anno fa tutti i giornali ed i settimanali riportarono la notizia della “memoria dell’acqua”, notizia che mise in subbuglio tutto il mondo scientifico e fu definita (molti di voi lo ricorderanno) “la scoperta del secolo”. Addirittura ci fu chi scrisse che da tale scoperta “si dovevano attendere spettacolari sconvolgimenti in tutti i campi delle conoscenze umane”. Di che cosa si trattava? Ecco: la famosa rivista scientifica inglese Nature aveva dato la notizia che un notissimo medico francese, il ricercatore Jacques Benveniste, aveva scoperto che i globuli bianchi del sangue umano, in presenza di anticorpi in soluzioni sempre più diluite, conservavano la capacità di reagire anche quando la soluzione era diluita a tal punto da non contenere più alcun anticorpo. Ergo, l’acqua conserva la memoria. Una tale “scoperta” sconvolgeva ovviamente le leggi naturali, ma – guarda caso! – accreditava fortemente le basi della omeopatia le cui fortune, fondate, in sintesi, sull’efficacia di soluzioni estremamente diluite, stava perdendo credibilità in tutto il mondo. Senonché, in seguito ad indagini e verifiche, si riuscì a dimostrare che questo famoso dott. Benveniste aveva utilizzato fraudolentemente, nei suoi esperimenti, campioni contaminati che, naturalmente, continuavano a provocare la reazione dei globuli bianchi. Dopo tale smascheramento, il Benveniste, che in un primo tempo era già stato qualificato “un grande scienziato” in tutto il mondo scientifico, divenne di colpo “uno scienziato di scarto” e la sua scoperta, sui giornali italiani, fu definita “un falso clamoroso” (giornali del 28/7/1988).

Potremmo continuare a portare esempi di imposture, miti, pregiudizi e falsità, ma per questioni di spazio ci limitiamo ai due casi prima citati (Ci preme sottolineare che il prof. Armando D’Elia, nei suoi lavori, ha più volte brillantemente contribuito a “smascherare” altri miti: quello delle proteine cosiddette “nobili” e quello degli aminoacidi “essenziali”, n.d.r.).

Si può trarre, concludendo, un chiaro monito, rivolto soprattutto ai fruttariani, che costituiscono la “brigata di punta” di tutto il movimento vegetariano: non bisogna mai aver paura di andare contro corrente, non bisogna mai aver paura di difendere a viso aperto il fruttarismo e le sue motivazioni scientifiche ed etiche: il tempo è galantuomo. La schiera, oggi ancora così fitta, di persone avverse al fruttarismo, è destinata ad assottigliarsi rapidamente; in genere si tratta di disinformati, da aggiornare con amore e pazienza. La Verità si imporrà inevitabilmente.

Per mettere in crisi chi è contrario al fruttarismo occorre prima di ogni cosa fargli capire che bisogna resistere alla tentazione di conformarsi supinamente alle opinioni dominanti, che spesso costituiscono la maschera perbenista di grossi interessi di natura economica.

Luciano Gianazza

Luciano Gianazza, traduttore dei libri originali di Arnold Ehret, e di Edward Earle Purinton, scrive articoli di carattere filosofico spirituale che rispecchiano le sue personali esperienze lungo il cammino della conoscenza, oltre ad altri sulla corretta alimentazione dell’uomo. Ha creato il sito NikolaTesla.it per un suo voler ricordare un Uomo, Nikola Tesla, per cui nutre una profonda stima.

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